Un inquinatore… seriale (parte II)

La seconda “invenzione” deleteria per l’ambiente di Thomas Midgley fu quella del FREON (questa volta a sua insaputa).

All’inizio degli anni venti del secolo scorso la produzione industriale e la relativa commercializzazione dei frigoriferi per uso domestico stava iniziando a decollare. Purtroppo i fluidi frigoriferi impiegati allora, come l’ammoniaca, l’anidride solforosa, il cloruro di metile, erano tossici o infiammabili. Così, forti della precedente esperienza con il piombo tetraetile, i funzionari della società produttrice di frigoriferi Frigidaire (consociata della General Motors) chiesero a Kettering di commisionare a Midgley lo studio di un fluido refrigerante che fosse non tossico, non infiammabile e anche poco costoso.

Pubblicità a colori anni 30 della Frigidaire, acquisita dalla General Motors nel 1919

Midgley, con il suo solito entusiasmo, si mise subito al lavoro ed in breve trovò la sostanza desiderata: il Diclorofluorometano e ne preparò alcuni grammi facendo reagire il trifloruro di antimonio con il tetracloruro di carbonio. Fu poi lui stesso ad annunciare l’avvenuta scoperta, durante un convegno del 1930 dell’American Chemical Society.

La società chimica DuPont registrò col nome di FREON tutti i composti chimici, adatti alla refrigerazione, contenenti cloro, fluoro, bromo, che presero il nome di “clorofluorocarburi” con sigla CFC. A questi composti si aggiunsero presto gli HCFC (idroclorofluorocarburi), HFC (idrofluorocarburi), HFE (idrofluoroeteri), CFE (clorofluoroeteri).

Tutti questi composti trovarono negli anni successivi altre applicazioni oltre al loro uso come refrigeranti: infatti furono impiegati come propellente nelle bombolette spray, per l’espansione delle resine, come solventi nell’industri elettronica e anche, col nome di HALON, negli estintori di incendi.

Così centinaia di migliaia di tonnellate di idrocarburi contenenti cloro, fluoro e bromo finirono nell’atmosfera senza che alcuno avesse una minima idea sul loro effetto nel futuro.

Finalmente, e per nostra fortuna, nel 1974 due ricercatori, il messicano Mario Molina, allora ricercatore post-dottorato all’Università della California, e l’americano Rowland Sherwood, pubblicarono sulla rivista Nature un articolo che evidenziava la minaccia dei clorofluorocarburi allo strato di ozono nella stratosfera: Stratospheric sink for chlorofluoromethanes: chlorine atomc-atalysed destruction of ozone, (in Nature, vol. 249, 1974, pp.  810-812 DOI: 10.1038/249810a0)

Presentarono poi nel settembre del 1974 un rapporto di 150 pagine alla AEC (Atomic Energy Commision) che lo mise a disposizione della riunione dell’American Chemical Society del settembre 1974.

Rowland e Molina nel loro laboratorio

In quel rapporto ed in una conferenza stampa organizzata ancora dalla ACS, i due ricercatori portarono il problema all’attenzione nazionale e chiesero il divieto totale di ulteriori emissioni di clorofluorocarburi nell’atmosfera. Secondo la loro ricerca, la reazione chimica che distrugge l’ozono a causa dei composti sotto accusa è la seguente: le molecole dei gas rilasciati raggiungono la stratosfera e qui, a causa dei raggi ultravioletti si rompono rendendo liberi gli atomi di cloro. Questi a loro volta colpiscono le molecole di ozono trasformandolo in ossigeno. In questa reazione il cloro svolge la funzione di catalizzatore e quindi ne esce intatto pronto per procedere contro altre molecole di ozono. Un solo atomo di cloro può portare alla distruzione di un numero incredibile di molecole di ozono sino a 100.000.

La reazione di distruzione delle molecole di ozono.

Lo strato di ozono, pur essendo in forma molto diluita, ha la proprietà di filtrare la radiazione ultravioletta di tipo UV-B (biologicamente dannosa) proveniente dal nostro sole, ponendo un impedimento al suo arrivo sulla terra. Lo strato è uno scudo che ha permesso e permette la vita sulla terra. Si ritiene infatti che la vita possa essere apparsa negli oceani e sulla superficie della terra miliardi di anni fa allorché parte dell’ossigeno della stratosfera si  trasformò in ozono.

È possibile solo immaginare quali siano gli incalcolabili danni che deriverebbero da una sua rottura o da una diminuzione del suo spessore.

Una riduzione dell’effetto schermante dello scudo di ozono comporterebbe un aumento dell’ intensità dei raggi ultravioletti sulla superficie della terra. Ciò comporterebbe un incremento dell’esposizione a detti raggi che, essendo ionizzanti, possono indurre mutazioni sia nei microorganismi che in altri esseri viventi come l’uomo in cui, danneggiando le cellule epiteliali, fanno aumentare il rischio di contrarre i tumori della pelle. I raggi ultravioletti tendono a ridurre la fotosintesi delle piante causando un rallentamento della crescita e di conseguenza, in caso di estensioni coltivate alla diminuzione della resa dei raccolti. Il pericolo di una maggiore intensità dei raggi ultravioletti va esteso anche al fitoplancton presente negli oceani e che fa da base alla catena alimentare: un abbassamento della sua attività fotosintetica provocherebbe un enorme scompenso negli ecosistemi oceanici.

Posizione dello strato di ozono

Le scoperte di Rowland e Molina furono (come ci si poteva aspettare) contestate dai produttori commerciali e dai gruppi dell’industria chimica, e un consenso pubblico sulla necessità di un’azione per limitare i danni della deplezione dell’ozono cominciò ad emergere solo nel 1976 con la pubblicazione di una revisione delle conoscenze sino ad allora acquisite da parte della National Academy of Sciences. Il lavoro di Rowland e Molina è stato poi ulteriormente sostenuto dalle prove della diminuzione a lungo termine dell’ozono stratosferico sull’Antartide, pubblicata da Joseph C. Farman e dai suoi co-autori in Nature nel 1985.

La presa di coscienza del pericolo incombente ha indotto molti governi a vietare l’uso della maggior parte dei clorofluorocarburi che poi, con il Protocollo di Montréal, son stati definitivamente banditi.

Il protocollo di Montréal è un trattato internazionale. È stato firmato il 16 settembre 1987 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1989.

L’effetto più vistoso della deplezione dello strato di ozono a causa dei CFC è quello che viene chiamato buco dell’ozono che staziona sul continente antartico.

L’andamento della variazione stagionale della superficie del buco è rappresentata nella figura sottostante.

Previsioni per l’estensione del buco nel futuro

Si prevede che il recupero dello strato di ozono ai livelli precedenti il 1970 avvenga attorno al 2060.

Il filmato seguente rappresenta la situazione nel 2019.

Oltre a Mario Molina e Rowland Sherwood, altri ricercatori si sono occupati del problema dell’inquinamento dell’atmosfera, fra questi in particolare va citato Paul Crutzen che ha portato alla conclusione le ricerche iniziate nel 1930 da Sidney Chapman, un fisico inglese che per primo ha teorizzato la formazione e la decomposizione delle molecole di ozono per via foto-chimica.

Nel 1995 l’Accademia delle Scienze Svedesi assegnò a Crutzen, Molina e Sherwood il premio Nobel per la chimica con la motivazione. “Per il loro lavoro in chimica atmosferica, e in particolare sulla formazione sulla decomposizione dell’ozono

Per quanto riguarda il nostro grande inquinatore, alla fine della biografia, Kettering scrive:

Midgley morì inaspettatamente il 2 novembre1944 all’età di 55 anni. Al suo funerale il ministro lesse il noto versetto: “abbiamo portato nulla in questo mondo, ed è certo che da esso non porteremo via nulla” Mi ha colpito poiché, nel caso di Midgley sarebbe stato più appropriato aver aggiunto: “ma possiamo lasciare e molto alle spalle per il bene del mondo”

E ciò che Midgley ha lasciato alle spalle è un grande patrimonio per il mondo con una vita frenetica diversificata e altamente creativa. Se non fosse tragico sarebbe quasi comico.

Grazie Midgley per la grande eredità che ci hai lasciato!!