Perché quando piove…

Ci fu un tempo un cui il “tempo atmosferico” veniva trattato con molta naturalezza.

Per uno come lo scrivente che abitava, e ancora abita, in una regione con (allora) il doppio della piovosità nazionale ed in una città che veniva chiamata: “Il pi… d’Italia” o più elegantemente: “Il vespasiano d’Italia” gli eventi atmosferici ed il seguirsi delle stazioni erano di una noiosità sconcertante.

L’inverno era freddo e apparentemente lunghissimo, le rarissime volte che nevicava, non essendo abituati, ci si sentiva membri di una spedizione al polo sud: quando un po’ di neve infarinava i colli intorno alla città ci si sentiva parte di tribù eskimesi oltre il circolo polare artico. Al di la del golfo, a levante, la corona delle alpi Apuane restava innevata sino a primavera inoltrata. Primavera che arrivava sempre puntuale con la fioritura della mimosa e degli alberi di frutta e che, con il primo tepore del sole, già ti faceva sognare l’estate.

L’estate, che qualcuno chiamava giustamente la stagione dei poveri, era finalmente la felicità. Sì, faceva molto caldo, ma solo nel periodo del solleone. Le vacanze, i bagni in mare, le passeggiate dopo cena in cerca di fresco e le lunghe discussioni con gli amici sino a notte inoltrata erano veramente il colore della vita.

Poi, purtroppo veniva lui: l’autunno, noioso, piovoso, triste e infinitamente lungo. Salvo il breve periodo dell’estate di San Martino che però, per dirla come il poeta, “Gémmea l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore… poi segue… E’ l’estate fredda dei morti”, non c’era scampo.

Una voce proveniente dall’apparecchio radio ti diceva il tempo che farà, seguita successivamente da un simpatico signore che, in bianco e nero, dallo schermo di un televisore ti faceva lezione di meteorologia. Poi, il giorno dopo, qualunque cosa fosse stata detta sul tempo, ognuno usciva di casa, sia che non piovesse, sia che ci fosse una pioggerellina, sia che venisse giù una pioggia torrenziale. I grandi andavano al lavoro e i bambini a scuola. Non succedeva che un bambino dicesse: “maestro ieri non sono venuto a scuola perché pioveva”.
Ogni tanto qualcuno imprecava dicendo: “Piove, governo ladro” ma nessuno si sognava di denunciare il sindaco o qualunque altro amministratore nella speranza di mandarli in galera per mancata previsione.Gli eventi atmosferici venivano considerati del tutto naturali.

Carta della precipitazione media annua in Italia 1921-1950

Oggi invece è tutto cambiato. Come si sente dire, “non ci sono più le stagioni di una volta”. Ed infatti è vero, non abbiamo più la percezione naturale degli eventi atmosferici. Ad un periodo di siccità segue un breve periodo di piogge torrenziali ed improvvise (quelle oggi definite “bombe d’acqua”), abbiamo gennai caldi e a volte maggio è freddo. In questa imprevedibilità, per evitare guai, qualunque sindaco dichiara l’allerta meteo e fa chiudere le scuole, ma poi al massimo all’annuncio segue, quando va bene, una “pioggerellina di marzo” e, quando va male, una vera e propria alluvione.

Perché avviene tutto questo? Semplice: Il clima sta cambiando a causa del riscaldamento globale e la pressione antropica ovvero la nostra presenza ed il nostro agire stanno cambiando il volto del pianeta. Alla eccessiva variabilità ed intensità degli eventi atmosferici abbiamo aggiunto una miriade di ostacoli al naturale scorre delle acque cementificando e rendendo impermeabile qualunque superficie disponibile. Dimenticando anche che l’acqua è più pesante di noi (infatti galleggiamo) e che una volta in movimento e se in grande quantità, diventa in grado di travolgere qualunque cosa, e qualunque tentativo di fermarla diventa inutile.

Allora vediamo un piccolo esempio sugli effetti del nostro agire come l’impermeabilizzazione di una data superficie.

Pensiamo di avere a disposizione un lotto di terreno piano usato come prato per pascolo e sottrarlo alla sua funzione per farne un grande parcheggio e quindi di asfaltarlo completamente e dotare il suo perimetro con canalette per raccogliere la pioggia così da condurla direttamente alle fognature.

Diciamo che le dimensioni di detto parcheggio siano appena più grandi di quelle di un campo di calcio, un quadrato di 100 m per 100 m.

Dimensioni di un campo da calcio.

Immaginiamo ora che piova per un’ora una pioggia definita come “Rovescio” in grado di scaricare una quantità d’acqua maggiore di 10 mm/h corrispondente ad un volume di:

$$ V = 10^2 \cdot 10^2 \cdot 10^{-2} = 10^2 m^3$$

Ovvero 100 metri cubi di acqua in un’ora.

E, se il tipo di pioggia fosse quello definito come “Nubifragio”, in grado di scaricare oltre 30 mm/h, avremmo, oh! poveri noi, 300 metri cubi d’acqua da smaltire sempre in un’ora.

Prima della asfaltatura tutta quell’acqua sarebbe rimasta sul prato percolando poi lentamente nel sottosuolo mentre ora si scarica tutta e molto velocemente nelle fognature.

Immaginiamo ancora che il nostro parcheggio si trovi ai limiti di una città e scarichi la sua acqua nelle stesse fognature, fognature in cui si scaricano necessariamente anche le acque proveniente da tutti i tetti, da tutte le terrazze, da tutte le strade, da tutte le aree impermeabilizzate e chi più ne ha più ne metta. Migliaia e migliaia di metri cubi di acqua si precipitano in un’ora entro sistemi di smaltimento costruiti molti anni prima che la città si ingrandisse e perdesse la maggior parte delle sue superfici non impermeabili.

Non resta più molto da dire. Tutta quell’acqua da qualche parte deve andare e quindi allaga strade, cantine, negozi, travolge e trascina con se tutto ciò che trova sul suo percorso non risparmiando niente e nessuno, continua fino a trovare un torrente o un fiume in cui trovare asilo purché questi non siano anche loro usciti dagli argini.

Quando va proprio bene e, in assenza di stivali (come in uso a Venezia), ci bagnamo soltanto i nostri piedini: Per finire guardate: Là, sotto quelle luci, è quasi tutto cemento ed asfalto.

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